ISTAT: rapporto annuale 2007

stralci della sintesi del Capitolo 4 - 30-05-08

Mercato del lavoro e condizioni economiche delle famiglie

I confini del mercato del lavoro

Nel 2007 il mercato del lavoro mostra alcuni segnali di difficoltà. L'occupazione continua a salire, ma con un ritmo dimezzato rispetto al 2006. Inoltre, questa crescita, concentrata nelle regioni settentrionali e centrali, è dovuta per i due terzi alla perdurante espansione della forza lavoro straniera. Permangono per l'Italia le difficoltà a centrare gli obiettivi fissati a Lisbona, relativamente ai livelli di partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto nelle regioni meridionali, e all'incapacità del sistema economico di valorizzare il capitale umano. Il tasso di attività si attesta nel 2007 al 62,5 per cento, rispetto al 70,5 per cento dell'Ue27. I divari territoriali e di genere sono ancora molto accentuati: si va dal 69 per cento del Nord al 52 per cento del Mezzogiorno, e dal 74 per cento degli uomini al 51 per cento delle donne. Nel 2007 le non forze di lavoro tra 15 e 64 anni hanno registrato un aumento dell'1,1 per cento (157 mila persone in più). Il risultato sintetizza la diminuzione registrata nelle regioni settentrionali e l'aumento in quelle centrali e, soprattutto, meridionali. Nel Mezzogiorno sono inattive più di sei donne ogni dieci, tra i 15 e i 64 anni. L'aumento dell'inattività nel Mezzogiorno è un fenomeno con motivazioni sia cicliche sia strutturali: da un lato, il rallentamento della domanda di lavoro è stato più forte nelle regioni meridionali; dall'altro il dato strutturale delle minori opportunità occupazionali (regolari) che caratterizzano il Mezzogiorno scoraggia la partecipazione. Lo stesso calo della disoccupazione, che perdura dal 1999, può essere letto in questa prospettiva. Nel 2007 i disoccupati ammontano a poco più di un milione e mezzo – circa un milione in meno rispetto a dieci anni prima. Tuttavia, negli anni più recenti la diminuzione non si è accompagnata a un significativo aumento del tasso di occupazione, ma a un allargamento dell'area dell'inattività, prevalentemente per la rinuncia a cercare attivamente un'occupazione. La crescita dell'inattività ha interessato sia i giovani fino a 29 anni, che ritardano l'ingresso nel mercato del lavoro proseguendo gli studi, sia gli adulti delle regioni meridionali, soprattutto donne, che non cercano un'occupazione ma sarebbero disponibili a lavorare qualora se ne presentasse l'opportunità. Tra gli inattivi si possono distinguere due aree: una distante dal mercato del lavoro, costituita da chi non è né interessato né disponibile a lavorare (casalinghe, studenti, ritirati dal lavoro eccetera) e una “zona grigia”, composta invece da soggetti che a vario titolo si mostrano interessati a lavorare. Tra questi, le “forze di lavoro potenziali” costituiscono un segmento degli inattivi più contiguo alle forze di lavoro. Si tratta di persone che dichiarano di essere alla ricerca di lavoro e disponibili a lavorare, anche se non hanno compiuto azioni di ricerca nelle quattro settimane che precedono l'intervista, e dunque non rientrano nei criteri stabiliti a livello internazionale per essere classificati come disoccupati. Le forze di lavoro potenziali contano nel 2007 1,2 milioni di individui. Le forze di lavoro potenziali sono un gruppo vicino ai disoccupati, anche nelle loro caratteristiche, ed entrambi questi gruppi si intersecano con il lavoro sommerso. Al loro interno, vi sono soprattutto i residenti nelle regioni meridionali e gli individui con un grado di istruzione non superiore alla licenza media. Tra gli uomini prevalgono i giovani, mentre tra le donne sono ben presenti anche le classi di età più adulte. Sotto il profilo territoriale, si concentrano nelle aree di maggiore debolezza del mercato del lavoro. Su dieci individui che non hanno cercato lavoro in modo attivo, quattro dichiarano di essere scoraggiati circa la possibilità di trovare un'occupazione; cinque su dieci nel Mezzogiorno. L'incidenza degli scoraggiati aumenta al crescere dell'età (dal 37 per cento tra i 15 e i 24 anni al 57 per cento tra i 55 e i 64 anni) e nelle regioni meridionali (48 per cento), ove alle minori opportunità d'impiego si affianca una maggiore sfiducia nella possibilità di trovare un'occupazione. Per altro verso, tra le forze di lavoro potenziali circa il 30 per cento degli uomini e il 20 per cento delle donne sono in attesa di conoscere l'esito di passate azioni di ricerca di lavoro. Nelle regioni settentrionali, caratterizzate da una maggiore vivacità, l'attesa dei risultati riguarda il 34 per cento della forza di lavoro potenziale maschile; tra i laureati, rappresenta il primo motivo della mancata ricerca di lavoro. Per le donne, come causa di mancata ricerca del lavoro si aggiungono gli impegni familiari: tra i 25 e i 44 anni una donna ogni tre indica difficoltà nella ricerca del lavoro dovute ai carichi familiari. È pertanto necessario – al fine di definire le priorità delle policy e i criteri di allocazione delle risorse – arricchire la gamma di indicatori utilizzati per analizzare il mercato del lavoro . Il disequilibrio tra domanda e offerta si manifesta in una pluralità di forme e assumono rilevanza gli obiettivi dell'innalzamento della partecipazione, dell'utilizzazione del potenziale di lavoro e della valorizzazione del capitale umano, con riferimento a particolari gruppi di popolazione. La diffusione del fenomeno dello scoraggiamento corrobora anche l'ipotesi dell'esistenza di perduranti difficoltà nell'ingresso nel mercato del lavoro, soprattutto per le donne e i giovani. D'altro canto, in Italia il canale informale continua a essere quello più utilizzato da chi cerca un'occupazione: la quota di lavoratori che vi ricorre è decisamente superiore a quella dell'Unione europea. Anche i datori di lavoro sembrano preferire i canali informali: la conoscenza diretta o la segnalazione costituiscono le principali modalità di selezione del personale per quasi un imprenditore su due. Del resto il ricorso a questo tipo di canale mostra comprovata efficacia, soprattutto laddove non vi siano barriere all'incontro tra domanda e offerta, e non costituisce necessariamente un segno di arretratezza. Tuttavia, i soggetti più deboli sul mercato del lavoro hanno minori opportunità di accesso alle reti informali: i servizi di intermediazione pubblici e privati dovrebbero – cosa che attualmente non sempre avviene – correggere queste situazioni di svantaggio e assicurare a tutti il diritto al lavoro.

Redditi e consumi delle famiglie: disparità e convergenze

La geografia della disoccupazione e dell'inattività trova puntuale riscontro in quella della distribuzione del reddito familiare. Anche in questo caso il punto di partenza è rappresentato dal confronto con la situazione europea: dal punto di vista della disuguaglianza dei redditi l'Italia si caratterizza nel complesso per un grado di disparità leggermente superiore alla media europea, ma ancora una volta il riferimento alla media non è illuminante. In realtà, mentre il Centro-Nord presenta un grado di disuguaglianza pari a quello medio europeo, il Mezzogiorno è più simile ai paesi caratterizzati da maggiori disparità di reddito (Lettonia, Portogallo, Lituania e Grecia). Il reddito netto delle famiglie residenti in Italia nel 2005 è pari in media a 2.300 euro mensili, inclusi gli effetti dei trasferimenti monetari – circa 700 euro al mese (se si includono i fitti imputati delle abitazioni – quasi 450 euro – il reddito netto mensile sale a 2.750 euro). Tuttavia, a causa della distribuzione disuguale dei redditi, se si fa riferimento al valore mediano, il 50 per cento delle famiglie ha guadagnato meno di 1.900 euro al mese. Le differenze dipendono, oltre che dal numero dei percettori presenti, anche dalle caratteristiche socio-demografiche dei componenti della famiglia, che il Rapporto analizza in dettaglio. Sono gli anziani soli a percepire i redditi più bassi, soprattutto nel caso delle donne con più di 65 anni che vivono da sole. La distribuzione del reddito equivalente offre un'ulteriore informazione sul livello di disuguaglianza: il venti per cento delle famiglie con i redditi più bassi percepisce circa l'8 per cento del reddito totale; come prevedibile, vi si concentra l'80 per cento delle famiglie in cui non sono presenti percettori di reddito da lavoro o da pensione. Per contro, il venti per cento delle famiglie con i redditi più elevati percepisce una quota pari a circa il 38 per cento e ha un reddito medio equivalente circa cinque volte superiore. Le differenze riscontrate sul territorio permangono profonde: il reddito delle famiglie del Mezzogiorno è approssimativamente pari a tre quarti di quello delle famiglie del Centro-nord, se si escludono dal calcolo i fitti imputati. A livello regionale, il reddito netto familiare è inferiore alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, mentre è superiore in tutte le regioni centro-settentrionali a eccezione della Liguria, dove l'incidenza degli anziani è la più forte. La provincia autonoma di Bolzano e la Lombardia sono le aree con il reddito medio più elevato; il reddito medio familiare più basso si osserva invece in Sicilia. Se nel calcolo del reddito si tiene conto dei fitti imputati, le differenze territoriali risultano ancora maggiori. In questo caso, infatti, il divario fra il reddito familiare medio annuo del Nord e quello del Mezzogiorno è di 10 mila euro, mentre al netto dei fitti imputati la differenza è di circa 7 mila. L'analisi dei dati derivanti dalla rilevazione sui consumi consente una lettura di più lungo periodo. Nel 2006 la spesa media mensile familiare in Italia ha raggiunto i 2.461 euro, con un incremento del 21,5 per cento in dieci anni. Con riferimento alle spese per l'abitazione – problema segnalato più volte nel Rapporto annuale – i dati del 2006 confermano che le famiglie che vivono in affitto, il 18,2 per cento su scala nazionale, si concentrano nelle aree metropolitane e tra le famiglie con i redditi più bassi, con una spesa media mensile pari a 340 euro. Nel 2006, il 13 per cento delle famiglie sopporta gli oneri di un mutuo per l'abitazione di proprietà (erano il 12 per cento nel 2004) e paga in una rata (comprensiva degli interessi e della quota di rimborso del capitale) di 559 euro al mese (la rata media era di 469 euro nel 2004), con un'incidenza sul reddito salita dal 16,5 al 19,2 per cento. Nel complesso, le spese per l'abitazione di queste famiglie ammontano a 811 euro al mese (da 702 nel 2004), con un incidenza sul reddito passata dal 24,7 al 27,9 per cento. Sono le coppie più giovani a sopportare più spesso i costi rilevanti (affitto o mutuo) per le abitazioni. Nel periodo 1997-2006, per la variazione dei prezzi relativi e per il mutamento delle capacità e delle abitudini di acquisto, non solo si è modificato il livello della spesa per consumi, ma ne è anche variata la composizione. Le famiglie ne risentono in modo differente a seconda dei diversi livelli di spesa e delle abitudini di consumo. Tuttavia, in genere la spesa è cresciuta più rapidamente per le famiglie con i livelli di spesa equivalente più bassi, e più lentamente per quelle con i livelli di spesa più elevati: ad esempio, per il 20 per cento delle famiglie con i livelli di consumo più bassi, l'aumento nel corso del decennio è stato del 32 per cento, mentre per il 20 per cento delle famiglie con i livelli di spesa più alti l'aumento è stato del 18 per cento. Si è dunque assistito, nel decennio, a una diminuzione delle disparità e a una convergenza dei modelli di consumo. Anche sotto il profilo qualitativo, la spesa delle famiglie tende a convergere, come è naturale, verso comportamenti di consumo e stili di vita più elevati. In generale, aumenta la quota di spesa destinata all'abitazione, ai trasporti e all'energia, mentre calano le spese per sanità, istruzione, tempo libero e cultura, oltre che – fisiologicamente – quelle destinate agli alimentari e agli altri beni di prima necessità.

 

 

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