Relazione annuale del Governatore della Banca d'Italia

stralci da "Le considerazioni finali" 01-06-06

Rafforzare la crescita in Italia

Dalla metà del 2005 l'economia italiana è in ripresa. La crescita si è consolidata nel corso del 2006, s. orando in media il 2 per cento, un risultato che non si aveva da cinque anni. Per il 2007 ci si attende un tasso di sviluppo simile, nonostante il rallentamento del primo trimestre. La ripresa è alimentata dagli investimenti e dall'espansione della domanda estera, in primo luogo in Germania. L'occupazione è notevolmente cresciuta, ancora in larga misura nelle posizioni dipendenti temporanee. Uscita dal ristagno, l'economia italiana si espande a un ritmo che resta fra i più bassi dell'area dell'euro. Nella prima metà di questo decennio la produttività del lavoro è diminuita in tutti i settori, segnatamente nell'industria. I divari indicano un ritardo nell'adeguamento del sistema produttivo italiano ai mutamenti del contesto tecnologico e competitivo. I recenti progressi nella produttività e nelle esportazioni, pur ancora modesti e largamente di natura ciclica, possono però suggerire che un processo di ristrutturazione si sia avviato.

La ristrutturazione del sistema produttivo

Un'indagine condotta nei mesi scorsi da ricercatori della Banca su un campione di oltre 4.000 imprese fornisce alcuni primi segnali in questa direzione. Oltre la metà delle imprese industriali del campione ha cambiato la propria strategia nell'ultimo quinquennio. Il 12 per cento che ha spostato la gamma dei prodotti verso nuovi settori ha conseguito nel 2006 profitti più alti della media. Un'impresa su cinque, una quota quasi doppia rispetto all'inizio del decennio, adotta forme di internazionalizzazione: dalla collaborazione con partner esteri, preferita dalle più piccole, alla delocalizzazione di attività di produzione o di commercializzazione. In tutte le imprese si è accresciuta l'importanza degli investimenti in progettazione, design, marchi, reti distributive e di assistenza. Fra le medio-grandi si diffondono nuove tecnologie di gestione aziendale integrata; cresce il ricorso a personale con livelli di istruzione più elevati; ne bene. ciano i risultati aziendali. Questi ultimi – fatto di grande rilevanza nel paese del capitalismo familiare – sono anche correlati inversamente con l'età dei capi d'azienda: le imprese che hanno affrontato il problema del ricambio generazionale hanno in media risultati migliori. Emerge dalla nostra indagine, dai numerosi studi di casi che l'hanno corredata, dalle evidenze raccolte da altri centri di ricerca, un quadro in trasformazione, anche per gli effetti della più aspra selezione delle imprese. Negli ultimi cinque anni, secondo i registri delle Camere di commercio, il saldo netto fra iscrizioni e cancellazioni nel settore manifatturiero è stato negativo per oltre 50 mila unità. Il sistema, di fronte al duplice shock della globalizzazione e del ricambio tecnologico, inizia a reagire. Sarebbe sbagliato concludere che la crisi di produttività e competitività degli anni scorsi sia ormai dietro le nostre spalle. La produttività nell'industria, caduta di tre punti percentuali fra il 2001 e il 2005, è cresciuta lo scorso anno di poco più di un punto; in Germania, Francia e Spagna è salita fra il 3 e il 6 per cento. Il divario nella dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto si è ampliato. La strada da percorrere è ancora lunga. Resta cruciale la dimensione delle imprese. Occorre una scala dimensionale adeguata per affrontare gli alti costi fissi dell'innovazione continua e della presenza attiva su mercati lontani; ancor più che negli impianti di produzione, la scala conta negli apparati che innovano il prodotto, che alimentano la visibilità e la reputazione del marchio, che organizzano la produzione. Le indagini sul campo mostrano l'esistenza di ostacoli alla crescita. Nella nostra ricerca, il 40 per cento delle imprese che giudicano troppo piccola la propria dimensione ha mancato concrete occasioni di ampliamento, per acquisizione o fusione, nell'ultimo decennio.

Un ritardo da colmare

La trasformazione produttiva è ostacolata da un contesto istituzionale che rimane carente, anche se alcuni progressi non vanno taciuti. La riduzione della disoccupazione è l'unico, importante, aspetto che vede l'Italia in linea con la tabella di marcia prevista dall'agenda di Lisbona. Nell'accrescere il tasso di occupazione, specie delle donne e delle coorti più anziane, nell'istruzione dei giovani, nella formazione della forza lavoro, nella riduzione del rischio di povertà, nell'attività innovativa, nel rispetto dei vincoli ambientali, il Paese è indietro; spesso più della media europea. Segnalai l'anno passato aree d'intervento strutturale di particolare rilevanza ai fini della crescita dell'economia e delle sue imprese. Vorrei tornare su taluni di quei temi, anche alla luce degli sviluppi da allora trascorsi. L'istruzione si conferma al primo posto fra i campi dove un cambiamento forte è necessario. La bassa collocazione del nostro sistema scolastico nelle graduatorie internazionali ha una caratterizzazione territoriale che merita attenzione. Al Sud i divari nei livelli di apprendimento sono significativi già a partire dalla scuola primaria, tendono ad ampliarsi nei gradi successivi: un quindicenne su cinque nel Mezzogiorno versa in una condizione di “povertà di conoscenze”, anticamera della povertà economica. Il ritardo si amplia se si tiene conto dei più elevati tassi di abbandono scolastico. L'esistenza di un divario territoriale così marcato mostra che il problema non sta solo nelle regole, ma anche nella loro applicazione concreta. In Italia il reclutamento dei docenti, la loro distribuzione geografica e fra le diverse scuole, i percorsi di carriera sono governati da meccanismi che mescolano, a stadi diversi, precarietà e inamovibilità. La mobilità ha scarso legame con le esigenze educative, con meriti e capacità: ogni anno più di 150 mila insegnanti su 800 mila cambiano cattedra in un travagliato percorso di avvicinamento alla posizione desiderata. Pesa il ritardo nello sviluppo di un efficace sistema di valutazione delle scuole, che nell'esperienza degli altri paesi appare indispensabile complemento dell'autonomia scolastica. Per cambiare la scuola italiana si deve muovere dalla constatazione dei circoli viziosi che la penalizzano, disincentivano gli insegnanti, tradiscono le responsabilità della scuola pubblica. I problemi nascono qui, non da una carenza di risorse per studente destinate all'istruzione scolastica, che sono invece più elevate in Italia che nella media dei paesi europei. Ancor più diretto e immediato, per un'economia avanzata, è il contributo allo sviluppo dell'università. Alcuni importanti interventi degli anni passati, dall'autonomia finanziaria alla valutazione della qualità della ricerca, attendono di essere portati a compimento. L'allocazione dei fondi pubblici dovrebbe privilegiare il finanziamento diretto degli studenti meritevoli e meno abbienti. Gli atenei dovrebbero potersi fare concorrenza, nell'attrarre studenti e fondi pubblici, con la qualità dei loro docenti e ricercatori, selezionati in base alla reputazione e remunerati di conseguenza. Il grado di concorrenza nel mercato interno dei servizi, pubblici e privati, influenza la crescita delle imprese che competono sul mercato internazionale: nei paesi in cui maggiori sono gli ostacoli legali o regolamentari alla concorrenza nell'offerta di servizi energetici, di telecomunicazione, di trasporto e professionali, l'industria manifatturiera cresce di meno. Il nostro paese è stato fino a poco tempo fa, e in parte è tuttora, fra quelli con la regolamentazione più sfavorevole agli utenti. Nel settore energetico la liberalizzazione è stata finora esitante. Nonostante la dinamica contenuta degli ultimi anni, il prezzo dell'energia elettrica per usi industriali in Italia, al netto delle imposte, è ancora tra i più alti d'Europa, maggiore del 20 per cento circa rispetto alla media. Puntare sulle liberalizzazioni dei mercati dei servizi, come si è iniziato a fare, è essenziale per recuperare competitività e crescita. L'obiettivo va perseguito anche per le ricadute sul benessere dei consumatori, non da ultimo in termini distributivi. Nel 2005 il 20 per cento più povero della popolazione italiana spendeva in quei servizi e beni oggi coinvolti in iniziative di liberalizzazione oltre il 15 per cento del totale dei suoi consumi mensili: 140 euro su 940, la metà dei quali per consumi di energia in varie forme. Ritardi e problemi si addensano nel comparto dei servizi pubblici locali, a iniziare dal trasporto pubblico urbano e dalla raccolta e smaltimento dei rifiuti. Le norme succedutesi nel corso degli anni novanta avevano cercato forme di separazione fra la gestione del servizio, da assegnare con meccanismi concorrenziali, e le attività che hanno carattere di monopolio naturale, attribuendo agli enti locali compiti di regolamentazione. Tali indirizzi sono stati spesso disattesi. I risultati in termini di costi e qualità dei servizi appaiono deludenti e differenziati sul territorio in ragione delle diverse capacità amministrative degli enti locali. In altri campi l'azione liberalizzatrice ha compiuto progressi. Nei servizi professionali le iniziative avviate nel 2006 hanno portato la regolamentazione italiana, che era la più restrittiva del mondo avanzato, su livelli vicini alla media. Nel campo delle attività commerciali l'azione va proseguita, radicando non solo nella legge, ma anche nella prassi, il principio che i punti di vendita non devono essere razionati sul territorio se non per valide ragioni di tutela ambientale; assicurando la piena applicazione di questo principio a livello regionale e locale. Le manchevolezze della nostra giustizia civile sono segnalate da studi internazionali, testimoniate dal disagio dei cittadini e delle imprese. Nella durata dei processi il confronto internazionale è impietoso. Un esempio fra tutti: i procedimenti di lavoro nel primo grado di giudizio durano da noi in media oltre due anni, un anno in Francia, meno di sei mesi in Germania. I tempi lunghi della giustizia non dipendono tanto da una carenza relativa di risorse, quanto da difetti nell'organizzazione e nel sistema degli incentivi. Emerge anche in questo campo uno specifico problema meridionale: la durata media di un processo civile ordinario di primo grado si triplica passando dal distretto di Torino a quello di Messina, da 500 a 1.500 giorni. Un pieno utilizzo dell'informatica renderebbe i procedimenti più rapidi ed efficienti, trasparente l'operato dei diversi uffici; fornirebbe la base conoscitiva indispensabile per incisivi interventi di riorganizzazione. Per rimuovere le inefficienze l'informazione è vitale. La qualità dei servizi forniti deve divenire il cardine per la valutazione delle amministrazioni pubbliche e dell'azione dei suoi dirigenti. Gli obiettivi devono essere chiari e verificabili. Un trattamento economico differenziato, in parte fondato sulla produttività individuale, valutata in maniera omogenea e trasparente, aiuterebbe a raggiungerli. Questa previsione è contenuta nel Memorandum d'intesa tra Governo e organizzazioni sindacali dello scorso gennaio. Nell'area delle infrastrutture sta un nodo irrisolto. L'esperienza degli ultimi anni, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, mostra come il processo decisionale condiviso fra Stato e Regioni sia faticoso e spesso inefficace. Nell'interesse generale, occorre riflettere sui casi in cui è opportuno, trascorso un tempo definito, svincolare l'azione del governo centrale dall'obbligo di assenso degli enti regionali e locali interessati. Dare voce alle esigenze locali deve essere possibile senza bloccare sine die la realizzazione di opere necessarie alla modernizzazione del Paese.

Una finanza pubblica sostenibile

Nel 2007 l'indebitamento netto, secondo le stime del Governo, sarà pari al 2,3 per cento del prodotto interno lordo, mezzo punto in meno dell'obiettivo indicato alla . ne dell'anno scorso. L'avanzo primario salirà al 2,6 per cento. Per assicurare la sostenibilità dei conti pubblici, la riduzione del disavanzo deve proseguire con interventi incisivi sulle dimensioni e sulla composizione del bilancio. Alla fine del 2006 il debito pubblico aveva raggiunto 1.575 miliardi, quasi 27 mila euro per ogni cittadino. La sua incidenza sul prodotto è salita per trent'anni, dal 32 per cento del 1964 al 121 per cento del 1994; è scesa di 18 punti tra il 1994 e il 2004; da allora è tornata ad aumentare. Senza vendite di attività e operazioni di ristrutturazione del passivo, oggi il rapporto tra debito e prodotto sarebbe circa lo stesso del 1994. L'accumulo del debito non ha aiutato l'Italia a crescere. Non ha dato al Paese un'adeguata dotazione di infrastrutture. Un debito elevato vincola le politiche pubbliche: richiede imposte più alte; riduce le risorse per gli investimenti, per la spesa sociale. Con il rialzo dei tassi, benché tuttora molto contenuto, la spesa per interessi tende di nuovo ad aumentare. Essa è già pari alla spesa per l'istruzione pubblica, ai due terzi della spesa per la sanità. Nel 2005 vi erano 42 ultrasessantenni per ogni 100 cittadini in età da lavoro. Ve ne saranno 53 nel 2020, 83 nel 2040. Queste tendenze si rifletteranno sulla spesa per le pensioni, la sanità, l'assistenza. A noi la scelta se abbattere il peso del debito nei prossimi dieci anni, prima dell'accentuarsi dell'invecchiamento, o aspettare: accettando però profondi cambiamenti nel sostegno che la società sarà in grado di assicurare ai più deboli. Il recente miglioramento dei conti pubblici è dovuto al forte aumento delle entrate; le stime del Governo indicano per quest'anno un ulteriore incremento della pressione fiscale. Il livello è più alto della media europea; è prossimo ai massimi degli ultimi decenni. Fra i grandi paesi d'Europa solo la Francia ha una pressione fiscale più elevata. A causa del peso dell'evasione, che resta forte nonostante qualche primo segno di recupero di gettito, la differenza tra l'Italia e il resto d'Europa è maggiore se si guarda al prelievo sui contribuenti fiscalmente onesti. Le aliquote legali delle imposte che gravano tanto sul lavoro quanto sul capitale sono elevate: quella sul reddito delle società è inferiore solo all'aliquota in vigore in Germania, dove il governo ha recentemente annunciato un taglio di nove punti. Livello eccessivo del prelievo, variabilità e complessità delle regole fiscali scoraggiano l'investimento in capitale . fisico e umano; rendono più onerosa l'osservanza delle norme. È solo riducendo stabilmente la spesa corrente che si può comprimere il disavanzo e abbattere il debito senza aggravare ancora il carico . scale. Dal 2000 la spesa primaria corrente è aumentata in media di un punto percentuale all'anno in più del prodotto. Il suo peso sul PIL ha raggiunto il 40 per cento; è sui livelli più alti dal dopoguerra. È necessario cambiare i meccanismi di spesa: ancora nel 2006 le erogazioni primarie correnti sono cresciute del 3,6 per cento, contro l'1,1 previsto nella manovra di bilancio. Esistono margini di risparmio in tutte le grandi voci del bilancio pubblico; il progetto di revisione dei programmi di spesa, avviato dal Governo, muove nella giusta direzione. Anche le politiche redistributive andrebbero valutate confrontando i risultati con i costi. Un riequilibrio duraturo richiede un intervento sul sistema previdenziale. La speranza di vita continua a crescere, il numero di italiani in età lavorativa a diminuire; il tasso di occupazione è il più basso dell'area dell'euro. È necessario accrescere nel tempo l'età media effettiva di pensionamento, anche per mantenere un livello adeguato dei trattamenti. Si deve applicare l'impianto del regime introdotto nel 1995: lo stretto collegamento sul piano individuale fra contributi e prestazioni riduce le distorsioni del prelievo e le differenze di trattamento fra categorie di lavoratori; permette flessibilità nella scelta dell'età di pensionamento. Un'applicazione rigorosa e tempestiva dei meccanismi di riequilibrio previsti dall'attuale normativa è essenziale. Ma non si potrà riportare il sistema su un sentiero di sostenibilità, e insieme assicurare ai cittadini pensioni sufficienti, senza un rapido, convinto avvio della previdenza complementare, ancora oggi modesta. L'investimento nella previdenza complementare può offrire risultati superiori al TFR; ulteriori vantaggi derivano dai contributi aggiuntivi dei datori di lavoro e dal favorevole trattamento fiscale. L'anticipo al 2007 del meccanismo del silenzio-assenso per l'attribuzione alla previdenza complementare delle quote del trattamento di . ne rapporto, le nuove forme di flessibilità nell'utilizzo del risparmio accumulato vanno nella direzione giusta. Tuttavia in non pochi casi l'adesione ai fondi complementari è frenata dagli oneri eccessivi che gravano sui risparmiatori: è ancora scarso l'effetto delle economie di scala prodotte dalla crescita delle masse gestite. La concorrenza deve crescere; insufficiente è la trasparenza delle commissioni, eccessivi i vincoli alla mobilità. Occorre riflettere sui limiti alla trasferibilità del contributo del datore di lavoro. Va migliorata l'informazione: se non hanno piena contezza della pensione pubblica di cui disporranno in futuro, i lavoratori non sono in condizione di fare scelte consapevoli. La previdenza complementare va estesa al più presto al pubblico impiego. Compatibilmente con l'equilibrio dei conti pubblici, si può anche valutare lo spostamento verso la previdenza complementare, su base volontaria, di una quota limitata della contribuzione destinata alla previdenza pubblica, che è pari a 33 punti percentuali del salario, il valore di gran lunga più alto tra i maggiori paesi europei.

La Relazione e le Considerazioni finali possono essere scaricate in versione integrale all'indirizzo web http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/relann/rel06/rel06it.

 
 

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