La fotografia 2006 ISTAT dell'Italia
diffuso il Rapporto annuale sulla situazione del Paese - 24-05-2007
 
Pubblichiamo, di seguito, una sintesi per stralci del Rapporto Istat La situazione del Paese nel 2006 diffuso il 23 maggio 2007: in 5 pagine le 524 di analisi e valutazioni Istat.

L'economia italiana nel 2006

Nel 2006 il Pil italiano è cresciuto dell'1,9 per cento, con un netto progresso rispetto all'anno precedente, quando la variazione era stata pressoché nulla. La ripresa, per quanto moderata, segna il ritorno all'espansione dopo un quadriennio di stagnazione. Tuttavia, in termini di tasso di crescita del Pil, il confronto con l'area dell'euro mostra un differenziale negativo di quasi un punto percentuale nel 2006, di poco inferiore a quello di 1,3 punti registrato l'anno precedente. La performance italiana, che era stata la peggiore all'interno dell'Uem nel 2005, nel 2006 è vicina a quella della Francia ma resta al di sotto di quella di gran parte degli altri paesi membri.

La ripresa italiana è significativa nell'industria, con una crescita della produzione del 2,6 per cento, inferiore di circa un punto percentuale rispetto all'area Uem; nei due anni precedenti il confronto era risultato più sfavorevole (il differenziale superava i 2 punti).

Il contributo dei servizi è invece modesto: con un'accelerazione debole e molto meno accentuata di quella registrata nel resto dell'Uem, nel nostro Paese l'incremento dell'attività è stato piuttosto contenuto (1,6 per cento contro il 2,6 dell'Uem).

Dal lato delle componenti della domanda, la ripresa risulta alimentata da spinte bilanciate, ma di intensità moderata; tanto i consumi quanto gli investimenti, ancorché cresciuti del 2,3 per cento, sono meno vivaci che nel resto dell'area. Anche il ruolo della domanda estera è stato molto contenuto, ma in linea con quello dell'Uem (0,3 punti percentuali). La tenuta della ripresa si gioca, quindi, su consumi privati e investimenti – cresciuti in Italia meno che nel resto d'Europa – e, in particolare, sulla possibilità che il reddito disponibile torni a crescere, alimentando la spesa delle famiglie.

Gli sviluppi macroeconomici recenti si prestano a una lettura ambivalente. Per un verso, una parte significativa del sistema produttivo italiano si è mostrata in grado di cogliere le opportunità di espansione sui mercati interni e internazionali. Per l'altro, il ritardo con cui ancora una volta l'Italia si è agganciata alla ripresa europea e il modesto ritmo di sviluppo dell'attività confermano che i vincoli, le inefficienze e i ritardi del sistema rischiano di allontanare le prospettive di crescita sostenuta a elevato contenuto d'innovazione.

Tra i vincoli, oltre a quelli specifici della struttura del sistema produttivo, vanno ricordati quelli di natura macroeconomica. Quello relativo all'andamento dei prezzi sembra superato: per il secondo anno consecutivo, il tasso d'inflazione medio è in linea con quello dell'Uem (2,2 per cento in termini di indice armonizzato).

Permane invece la vulnerabilità legata alla condizione della finanza pubblica, e in particolare dello stock di debito. Il conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche, nella versione provvisoria relativa all'anno 2006, ha registrato una maggior incidenza dell'indebitamento netto sul Pil, salita al 4,4 per cento dal 4,2 dell'anno precedente. Ad aumentare l'indebitamento netto del 2006 hanno contribuito alcune uscite per oneri straordinari: senza questi, l'indebitamento netto sarebbe risultato pari al 2,4 per cento del Pil. Per lo stesso motivo, lo stock di debito pubblico italiano in rapporto al Pil ha proseguito la crescita, iniziata l'anno precedente dopo un decennio di continua diminuzione, salendo dal 106,2 del 2005 al 106,8 per cento.

Le mappe del modello produttivo

Le caratteristiche del modello produttivo italiano non favoriscono la crescita della competitività. Nel confronto europeo, le imprese italiane sono di dimensioni ridotte, specializzate in settori a basso valore aggiunto e adottano in molti casi modelli di organizzazione basati sulla conduzione familiare: in queste imprese l'innovazione e la produttività sono comparativamente più basse e una redditività sufficiente è conseguita grazie a un costo del lavoro relativamente inferiore.

Non mancano segnali incoraggianti e segmenti più dinamici dell'apparato produttivo che esprimono strategie e comportamenti virtuosi e che, pertanto, meritano attenzione. Hanno un impatto positivo sulla produttività l'intensità di capitale, la propensione all'esternalizzazione e l'innovazione. Anche le forme di internazionalizzazione delle imprese e, in particolare, la realizzazione all'estero di fasi del processo produttivo, giovano alla performance.

Le motivazioni predominanti che spingono a intraprendere l'attività sono il desiderio di mettersi in proprio (75 per cento); la prospettiva di maggiori guadagni (73 per cento); il desiderio di una nuova sfida (68 per cento), cui segue però anche la volontà di evitare la disoccupazione in più della metà dei rispondenti. I problemi incontrati nella fase di avvio più spesso indicati sono gli aspetti giuridici e amministrativi (63 per cento); i contatti da stabilire con i clienti (61 per cento); le difficoltà nel reperire i finanziamenti (55 per cento). In Italia viene riportata come difficoltà più rilevante quella dei contatti con i clienti (68 per cento) che supera, sia pur di poco, anche le problematiche amministrative (66 per cento). II peso degli oneri fiscali e amministrativi permane nella fase successiva quando rappresenta il maggiore ostacolo allo sviluppo dell'attività imprenditoriale (69 per cento); ciò avviene in modo particolare nel nostro Paese (87 per cento). Più in generale, le nuove imprese italiane sembrano incontrare impedimenti in misura maggiore di quelle europee.

Con riferimento ai risultati conseguiti, l'analisi può essere estesa all'universo dei 4,2 milioni di imprese attive, classificandole sulla base della redditività e della produttività. Il segmento di quelle in cui entrambi gli indicatori sono ben al di sopra della media raggiunge il 21 per cento del totale: si tratta prevalentemente di piccole imprese, con una forte presenza di professionisti e di lavoratori autonomi, localizzate soprattutto nel Nord e operanti specialmente nei servizi alle imprese. Quelle con produttività sensibilmente al di sopra della media, ma redditività molto bassa, sono il 16 per cento del totale; sono prevalentemente società di capitale, di dimensione media importante. Per contro, il 29 per cento delle imprese, pur con una produttività del lavoro pari alla metà della media, consegue livelli di redditività quasi doppi. Il segmento delle imprese di sussistenza è quello più importante e sfiora il 35 per cento del totale. Si tratta di quasi un milione e mezzo di imprese, di dimensione poco inferiore alla media, che hanno livelli di redditività e di produttività pari a circa un terzo di quelli medi. Sono prevalentemente imprese individuali e società di persone, relativamente più rappresentate nel Mezzogiorno. I settori di specializzazione sono il commercio, gli alberghi e i ristoranti nell'ambito dei servizi; in ambito manifatturiero, i settori più tradizionali del “made in Italy” (alimentari; tessile-abbigliamento; pelli, cuoio e calzature; legno e mobili; materiali per l'edilizia). La distribuzione dei profili delle imprese ha anche un importante risvolto territoriale: nel Mezzogiorno, le imprese più tradizionali e meno dinamiche sono relativamente più diffuse. Il segmento delle imprese di sussistenza raggiunge il 43 per cento del totale (oltre 500 mila imprese con quasi 1,4 milioni di addetti). Quello delle imprese con produttività al di sotto della media, ma ottimi livelli di redditività conseguiti grazie a un basso costo del lavoro, sfiora il 32 per cento (380 mila imprese con quasi mezzo milione di addetti). Gli altri segmenti, più virtuosi, includono meno del 25 per cento delle imprese.

I diversi mercati del lavoro

Il processo di aumento generalizzato della quota di popolazione inserita nell'attività lavorativa perdura da un decennio per l'insieme dei paesi dell'Ue e ha coinvolto in misura simile il nostro, grazie soprattutto al contributo dell'accresciuta flessibilità (tempo determinato, part time, lavoro interinale eccetera). Poiché i progressi registrati in Italia sono grosso modo simili a quelli emersi nel resto dei paesi europei, la crescita del tasso d'occupazione non ha colmato il divario preesistente. Occorre considerare che nel nostro Paese la dimensione del mercato del lavoro “irregolare” è molto ampia (nel 2005 le unità di lavoro irregolari sono stimate in poco meno di 3 milioni, pari al 12 per cento).

Siamo in presenza di due mercati che si intersecano e che meritano di essere analizzati congiuntamente. Sotto il profilo della partecipazione, la componente dei lavori plurimi riguarda comunque occupati già misurati dalle forze di lavoro. Se si considera il nucleo dei 15 paesi di più lunga appartenenza all'Ue, il tasso di occupazione ufficiale è cresciuto tra il 1996 e il 2006 di quasi 6 punti percentuali, avvicinandosi al 66 per cento. Il progresso registrato in Italia è stato di poco superiore, quasi 7 punti percentuali.

L'espansione della quota di popolazione occupata, lievemente più veloce di quella della partecipazione, ha determinato una discesa del tasso di disoccupazione. La quota di attivi in cerca di lavoro è scesa in Italia di oltre 4 punti percentuali, portandosi di recente al 6,5 per cento; nell'Ue la discesa è stata un po' meno intensa e il livello è ora appena superiore al 7 per cento. Il problema principale è diventato, infatti, quello di allargare la platea di popolazione in età attiva effettivamente occupata o che comunque vuole inserirsi nel mercato, e di migliorarne le competenze professionali. La quota di coloro che cercano attivamente un lavoro è ormai vicina a livelli fisiologici nel Nord, anche se non va dimenticato che il problema della disoccupazione resta prioritario nel Mezzogiorno (dove il tasso di disoccupazione è del 12,3 per cento), per i giovani (21,6 per cento) e – all'interno di questi gruppi – per la componente femminile. Tassi d'attività e d'occupazione bassi non sono soltanto un limite alle potenzialità di crescita economica ma, soprattutto, un ostacolo rilevante alle possibilità di realizzazione sociale e di scelta individuale di gruppi consistenti della popolazione.

L'ingresso ritardato nel mercato del lavoro può essere ricondotto sia a fenomeni di scoraggiamento, sia a una crescente propensione ad allungare i percorsi formativi. Circa l'88 per cento delle persone in età compresa tra i 15 e i 24 anni in condizione non attiva risulta impegnato nel sistema formativo. Un aspetto rilevante riguarda i giovani che non giungono al diploma, soprattutto le giovani donne del Mezzogiorno.

Per il segmento più anziano (55 anni e oltre) la permanenza nell'occupazione si allunga, riflettendo gli incentivi a posticipare l'età di pensionamento ma anche il miglioramento delle condizioni di vita e di salute. L'espansione dell'occupazione ha coinvolto in misura ingente la componente femminile, con un innalzamento sia della quota di occupate sia del tasso di partecipazione. Oltre il 60 per cento dell'incremento complessivo dell'occupazione (2,7 milioni in dieci anni) ha riguardato le donne, con un ampio contributo del lavoro a tempo parziale. Nel 2006 il tasso di attività delle donne in Italia ha superato il 50 per cento, restando però inferiore di 13 punti a quello dell'Ue15. L'inserimento delle donne nel mercato del lavoro resta condizionato dagli impegni familiari. Gli elementi più critici sono la distribuzione asimmetrica dei carichi di lavoro domestico, l'offerta inadeguata di servizi per l'infanzia e un sistema di welfare che non sostiene adeguatamente le attività di cura e assistenza alla famiglia.

I principali problemi del mercato del lavoro italiano rimandano comunque al permanere di una situazione molto negativa nel Mezzogiorno, la cui distanza dal resto dell'Italia e dall'Ue non si riduce.

Condizioni economiche delle famiglie, invecchiamento e rischi sociali

Il Rapporto dello scorso anno ha analizzato in dettaglio le condizioni economiche e di vita delle famiglie utilizzando i dati della nuova indagine sui redditi (Eu-Silc) effettuata in tutti i paesi europei. Nel 2004, le famiglie residenti in Italia hanno percepito in media un reddito netto mensile di circa 2.750 euro, inclusi gli effetti dei trasferimenti monetari a loro favore (circa 750 euro al mese) e dei fitti imputati delle abitazioni (quasi 500 euro). Tuttavia, metà delle famiglie ha guadagnato meno di 2.300 euro mensili (circa 1.800 euro al mese senza i fitti imputati). Il reddito medio più basso, circa 1.400 euro, è quello percepito dalle famiglie costituite da anziani soli. Si conferma l'esistenza di un profondo divario territoriale: il reddito delle famiglie del Mezzogiorno è pari a circa tre quarti del reddito di quelle residenti al Nord. Le famiglie appartenenti al 20 per cento più povero della distribuzione percepiscono soltanto il 7,8 per cento del reddito totale, mentre la quota di reddito del 20 per cento più ricco risulta del 39,1 per cento.

In Italia nel 2005 le famiglie con una spesa per consumi inferiore alla soglia di povertà, e quindi povere in termini relativi, sono 2,6 milioni (l'11,1 per cento delle famiglie residenti). Le caratteristiche delle famiglie povere sono ben note. Un elevato numero di componenti, la presenza di figli – soprattutto se minori – o di anziani in famiglia, così come un basso livello di istruzione e una ridotta partecipazione al mercato del lavoro, sono fattori associati alla condizione di povertà che concorrono a determinare forti divari territoriali.

Non vi è dubbio, tuttavia, che con riferimento alla struttura e alle dinamiche sociali, è l'invecchiamento il vincolo strutturale più complesso da gestire. Infatti, nonostante la transizione demografica abbia agito nella stessa direzione in tutta Europa, l'azione delle sue componenti – sopravvivenza e fecondità – si è manifestata con particolare intensità e persistenza nel nostro Paese. La fecondità italiana, scesa a metà degli anni Settanta sotto il livello di sostituzione (due figli per donna), è tuttora a livelli molto bassi (1,35 nel 2006), Le migliorate condizioni di vita, una maggiore attenzione alla prevenzione e ancor più il progresso della tecnologia medicosanitaria, accanto a stili di vita più salutari, hanno fatto salire il nostro Paese ai primi posti della graduatoria mondiale della speranza di vita (78,3 anni per gli uomini e 84,0 per le donne, alla nascita; 16,8 anni per gli uomini e 20,6 per le donne, a 65 anni).

Come conseguenza, ormai l'Italia è il paese più vecchio d'Europa. Al 1° gennaio 2006 si contano 141 persone di 65 anni e oltre per 100 giovani con meno di 15 anni. Nel mondo ci supera soltanto il Giappone (154 anziani ogni 100 giovani).

L'invecchiamento è fonte primaria di aumento dei rischi sociali, soprattutto se si valuta il suo ritmo di incremento in combinazione con l'allargamento, tuttora insufficiente, della partecipazione femminile. Questo incremento tende ad acuire i problemi connessi alla domanda di cura. Da un lato, i sistemi pubblici non offrono adeguati strumenti di assistenza per problemi di sostenibilità finanziaria; dall'altro, nelle famiglie stanno progressivamente crescendo le difficoltà di farsi carico dell'assistenza a bambini e anziani. Inoltre, le famiglie costrette a utilizzare maggiormente servizi di assistenza sostengono un costo ingente, con evidenti ripercussioni sui bilanci familiari. In generale, l'analisi delle spese per le politiche di welfare e delle condizioni economiche delle famiglie italiane disegna un Paese che stenta a seguire i cambiamenti strutturali in corso, pur mostrando alcuni timidi segnali di miglioramento. Il nostro Paese, infatti, sembra ancora poco reattivo alle nuove sfide che la società in trasformazione lancia al sistema di protezione sociale e le politiche fanno largo uso dei trasferimenti monetari quale strumento di contrasto dell'esclusione sociale. Il ritardo emerge dal confronto con gli altri paesi dell'Ue15. L'Italia destina la quota maggiore della ricchezza nazionale ai trasferimenti monetari e alle prestazioni in natura a favore degli anziani: 51,3 per cento contro il 41,2 dell'Ue15. Si comprimono, pertanto, le risorse disponibili per le politiche per le famiglie (il 4,4 per cento contro il 7,8 dei paesi Ue15), per l'occupazione (2 per cento contro il 6,6 dei paesi Ue15) e per gli interventi di contrasto all'esclusione sociale (lo 0,2 contro l'1,5 per cento dell'Ue15).

Immigrazione e nuovi cittadini

La novità storica è che l'Italia è divenuta una delle mete europee privilegiate di consistenti flussi in entrata dall'estero, tali da far raggiungere alla popolazione straniera regolarmente presente (in possesso di permesso di soggiorno valido) i 2,8 milioni al 1° gennaio 2006, pari al 4,7 per cento della popolazione residente totale. Il fenomeno delle migrazioni internazionali in Italia presenta due caratteristiche peculiari. La prima è la rapidità con cui si è manifestato. La seconda riguarda l'eterogeneità dell'origine dei flussi, maggiore che negli altri grandi paesi d'immigrazione. Una quota pari ai due terzi della presenza regolare è assorbita da stranieri provenienti da 15 paesi, di ogni area geografica del pianeta. Circa un terzo della quota totale si distribuisce in tre differenti cittadinanze, tutte oltre le 200 mila presenze regolari: Romania (271 mila al 1° gennaio 2006), Albania (257 mila) e Marocco (240 mila). Seguono, con oltre 100 mila presenze regolari, Cina e Ucraina. L'88 per cento della popolazione straniera risiede nel Centro-nord, ben un quarto in Lombardia, con una incidenza del 7 per cento sul totale dei residenti. All'invecchiamento della popolazione italiana si contrappone una struttura per età dei cittadini stranieri residenti in cui prevalgono i minorenni e le persone in età attiva e riproduttiva. Circa un residente straniero su due ha un'età compresa tra i 18 e i 39 anni, contro il 29 per cento nella popolazione italiana. Sempre più spesso le coppie di cittadini stranieri scelgono di realizzare i loro progetti familiari e di mettere al mondo un figlio nel nostro Paese. Le donne straniere residenti mostrano una propensione ad avere figli doppia di quella delle donne italiane, rispettivamente 2,45 figli per donna contro 1,24 nel 2005. Su 554 mila iscritti in anagrafe per nascita nel 2005, il 9,4 per cento è di cittadinanza straniera, cioè ha entrambi i genitori stranieri. Questa percentuale sale a 13 sommando i bambini nati da coppie miste (circa 20 mila).

Osservando l'immigrazione nell'ottica del paese di accoglienza, essa comporta immediatamente un aumento del capitale umano, ed è comprensibile che essa sia valutata anche come possibile ammortizzatore dello squilibrio atteso del sistema previdenziale. A fronte di un rapporto tra anziani (65 anni e oltre) e attivi (15-64 anni) pari a 30 ogni 100, quello tra percettori di trattamenti pensionistici e occupati è pari a 71 ogni 100. Sul versante della contribuzione al finanziamento della spesa previdenziale, il tasso di occupazione risulta più elevato tra gli stranieri che tra gli italiani. Le professioni svolte dalla popolazione straniera sono prevalentemente a bassa specializzazione: quasi tre stranieri su quattro sono operai o svolgono un lavoro non qualificato. Circa un quinto rientra nel gruppo delle professioni collegate alle attività commerciali e dei servizi. Tuttavia, dal punto di vista delle prospettive demografiche, il quadro attuale della presenza straniera e della sua dinamica suggerisce una grande cautela nell'immaginare l'immigrazione come una risorsa illimitata, direttamente fruibile dal sistema economico e previdenziale ai fini del contenimento degli effetti del processo d'invecchiamento della popolazione. Le comunità consistenti e di meno recente insediamento (Maghreb, Albania), infatti, registrano una dinamica dei flussi in ingresso non solo relativamente contenuta in valori assoluti, ma anche attribuibile a ricongiungimenti familiari. Grandi incertezze – particolarmente in termini di dimensioni dei flussi – restano sul futuro dell'immigrazione dall'Asia, in particolare dalla Cina, e soprattutto dall'Africa sub-sahariana, che attualmente rimane la grande assente nel panorama della presenza straniera in Italia e la maggiore incognita del prossimo futuro per l'intera Unione.

 

 

 

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