Rapporto annuale ISTAT
"Italia divisa in due e in ritardo " - 25/05/06

Reddito

7,6 milioni di indigenti con differenze reddituali particolarmente significative che confermano le spaccature tra Nord e Sud. Nel Mezzogiorno le famiglie percepiscono circa 3/4 del reddito delle famiglie che vivono al Nord. E' la fotografia che emerge dal Rapporto annuale ISTAT presentato il 24 maggio. Con diversi distinguo una famiglia su due ha un reddito mensile netto inferiore a 1.670, ma un milione e mezzo di persone arrivano ad un massimo di 783 euro.

Il 40% del reddito totale è appannaggio del 20% delle famiglie più ricche.I fattori individuali che influenzano la distribuzione dei redditi sono il livello di istruzione, il genere, l'età. Nella produzione del reddito, il 43,1% proviene da lavoro dipendente ed il 32,9% da trasferimenti pubblici, il 92% riguarda pensioni. Quando la fonte principale è il lavoro autonomo maggiori sono le entrate.

I destinatari di redditi bassi sono per il 28,2% donne e per il 12,3% uomini; per il 36% giovani con meno di 25 anni, per il 32% chi ha un basso titolo di studio, per il 21% coloro che lavorano nel privato, per il 40% i lavoratori a tempo determinato, per il 46,7% chi lavora meno di 30 ore contro il 13% di quelli che ne lavorano almeno 30.

Le donne con basso reddito vivono spesso in famiglie dove ci sono altri percettori di reddito. Oltre il 50% dei lavoratori a basso reddito opera nell'agricoltura, nella caccia e pesca e il 42% svolte professioni non qualificate.

L'11,7% del totale per complessivi 7,6 milioni di persone sono i poveri. L'emergenza tocca il Sud dove una famiglia su 4 è povera e dove le persone povere nell'ultimo anno, un record, sono aumentate di circa 900 mila unità, interessando oltre 1.800.000 famiglie.

La povertà interessa soprattutto famiglie con tre o più figli minori e quelle dove il riferimento principale è pensionato o donna, sia anziana o comunque sola.

L'Italia è tra i Paesi europei a minore mobilità sociale, ovvero il passaggio da una classe sociale all' altra. Le donne hanno una probabilità maggiore di quella maschile di permanere nella classe di origine: è il caso delle figlie della classe operaia agricola e della borghesia.

Trend economico
L'economia italiana esprime un potenziale di crescita ridotto che non le consente ancora di agganciare la ripresa mondiale. Il sistema economico italiano è costellato da elementi di debolezza ai quali si aggiungono fattori di vulnerabilità più specifici, quali le esposizioni ai rischi di ulteriore perdita di competitività e l'elevata dimensione del debito pubblico. La graduale riduzione dell'avanzo primario, poi, frena sensibilmente il contributo alla crescita attraverso la leva della spesa pubblica e rende necessarie misure strutturali per riportare il debito pubblico dentro la sostenibilità. La ripresa economica dovrà innestarsi in un sistema dove la produttività è più bassa che in altri paesi e dove il potenziale di crescita è di circa la metà rispetto a quello dell'area euro. I problemi sono spesso legati alla frammentarietà produttiva, e la pluralità di soggetti pronti a fare economia può essere un valore solo se c'é interazione.

Tessuto produttivo

A partire dal 2000, in modo sistematico, le imprese che cessano l'attività sono maggiori di quelle che nascono. I l bilancio è in passivo di circa 21.000 imprese (circa 304.000 cessazioni contro circa 283.000 nascite.

Il sistema produttivo è caratterizzato da un eccesso di imprenditorialità, accompagnato, però, e da un tasso di produttività modesto, più basso di dieci punti percentuali rispetto alla media europea. Il tessuto produttivo resta ancorato alle micro-imprese, dove la specializzazione è debole proprio nei settori ad alta tecnologia ed elevata intensità di conoscenza rispetto a quelli più tradizionali del made in Italy.

Tecnologie e formazione

La situazione economica dell'Italia è caratterizzata dal permanere di un forte ritardo nella produzione di tecnologie e nel loro impiego nel sistema economico. Miglioramenti si sono registrati nella formazione di risorse umane, sia pure in maniera non uniforme. In ricerca e sviluppo la spesa dell'Italia é rimasta intorno a un livello poco superiore all'1% del Pil, come a metà degli anni 80. In Germania si spende il 2,5%, in Francia il 2,2% e nel Regno Unito l'1,8-1,9%. Un divario notevole" con il resto d'Europa emerge anche nell'ambito delle tecnologie dell'informazione

Consumi

L'aumento dei prezzi fa abbassare i consumi anche quando si tratta di quelli essenziali, di cibo: il 25% delle famiglie compra meno pane e pasta mentre oltre il 30% meno carne, frutta e verdura; il 37,2% riduce l'acquisto di pesce; il 15% opta per alimenti di qualità più bassa.

Lavoro

Tra il 1995 e il 2005 l 'occupazione in Italia è cresciuta di 2,7 milioni di persone raggiungendo quota 22.563.000 unità. La percentuale di occupati tra i 15 e i 64 anni pur crescendo dal 53% al 57,5% resta molto al di sotto della media europea del 2005 (64,6%). Il tasso di disoccupazione nella media 2005 era del 7,7% in calo rispetto al 9,1% del 2001 ma l'Istat segnala come questa riduzione sia stata possibile anche grazie alla crescita della popolazione inattiva dovuta alla rinuncia alla ricerca di occupazione soprattutto al Sud.

Il mercato del lavoro ha perso una quota di lavoro femminile allargando il divario con l'Unione europea. Nel 2005, per la prima volta dalla metà degli anni '90, il contributo delle donne all'aumento dell'occupazione è stato inferiore a quello degli uomini. La quota delle lavoratrici sul totale degli occupati è scesa dal 39,2% del 2004 al 39,1% del 2005. Nella UE a 25 il trend è invece opposto:

Più complessivamente continua a rallentare la crescita dell'occupazione, che invece era stata sostenuta a partire dal '95. Aumenta il tasso di disoccupazione, soprattutto tra i giovani (nel 2005 al 24%, con un incremento sul 2004 dello 0,4%).

Sempre più italiani lavorano con orari flessibili. La fascia 9/17 vale solo per otto milioni di lavoratori, circa un terzo del totale. Per gli altri sono sempre più frequenti i turni, il lavoro nel week end e quello notturno. Grazie alla crescita dell'impiego nei servizi e alla liberalizzazione degli orari nel commercio è aumentato anche il numero degli addetti impiegati di sabato (il 48,8% del totale) e della domenica (18,8% del totale), mentre il 22,1 è impegnato di sera e l'11,2% di notte. Gli italiani lavorano in media 38,1 ore a settimana, oltre un'ora in più della media UE a 15, ma il dato risente del basso livello del ricorso al part time nel nostro Paese (12,8% contro il 20,2 della media UE). Nella sostanza invece un lavoratore a tempo pieno in Italia è impegnato per 40,6 ore, circa mezz'ora in meno della media europea. Il numero medio di ore lavorate è molto diverso se si considerano i lavoratori dipendenti e quelli indipendenti. Per i primi la media in Italia è di 36,5 ore a settimana (compresi quelli in part time) a fronte delle 35,6 della media europea. Per i lavoratori indipendenti la media di ore lavorate è di 42,4 ore contro le 43,5 dei lavoratori autonomi europei. Se il mercato del lavoro italiano avesse la struttura di quello dell'UE a 15 l 'orario medio sarebbe del 3,9% inferiore a quello effettivo (per un'ora e 12 minuti). In Italia si lavora più ore soprattutto nelle aziende più piccole: in quelle con 10-49 addetti i lavoratori sono impegnati per una media di 1.744 ore all'anno (a fronte delle 1.621 dell'UE

a 15), mentre in quelle con una fascia dimensionale tra i 500 e i 999 addetti i dipendenti sono impegnati per 1.592 ore (1.554 nella media UE a 15). L'impegno orario torna a salire nelle aziende con oltre 1000 dipendenti con un orario medio di 1.634 ore all'anno (1.500 nella media UE a 15).

Gli uomini lavorano in media molte ore in più delle donne (41 ore a fronte di 33,5) soprattutto a causa dell'utilizzo del tempo parziale dalla parte femminile. Anche se si considera solo il tempo pieno le donne lavorano in azienda circa quattro ore in meno degli uomini con una media di 37,9 a fronte di 41,9 ore. Un vantaggio immediatamente perso con il lavoro familiare: ogni giorno infatti le donne impiegano nel lavoro di cura in media circa 4,07 ore a fronte di un ora e cinquanta minuti degli uomini.

Taglio cuneo fiscale


Per il presidente dell'Istat Luigi Buggeri “l'annunciata misura del taglio del cuneo fiscale può essere salutare ai fini della competitività delle imprese, ma "rischia di fornire un disincentivo all'innovazione. Le misure in discussione sulla riduzione del cuneo contributivo - ha sottolineato Biggeri - forniscono segnali solo parzialmente coerenti con le esigenze di trasformazione del sistema delle imprese. La riduzione proposta di 5 punti percentuali dei contributi sociali, con un costo netto per il bilancio pubblico pari a circa 10 miliardi di euro - spiega il presidente dell'Istat - avrebbe l'effetto di ridurre il costo del lavoro e aumentare la redditività lorda di circa 2-3 punti percentuali se l'intero risparmio andasse a favore delle imprese. Ciò rappresenterebbe uno choc positivo in termini di competitività, ancorché una tantum. Questa misura rischia però - avverte Biggeri - di fornire un disincentivo all'innovazione di prodotto e di processo e al passaggio verso tecnologie più capital-intensive e, in assenza di meccanismi di selezione virtuosa, premerebbe sostanzialmente le imprese meno produttive". Per Biggeri "se una parte dei benefici fosse trasferita ai lavoratori, l'impatto sui redditi disponibili delle famiglie sarebbe comunque modesto, senza concentrarsi su quelle in condizioni di disagio a meno che non si limiti il provvedimento a gruppi target selezionati".

Spesa sociale

L a spesa delle Amministrazioni pubbliche destinata agli interventi sociali (sanità, istruzione, assistenza e beneficenza) é stata pari a circa 3.000 euro pro-capite, in crescita di oltre 900 euro nell'arco 1996-2003. Nello stesso periodo, la crescita di questa voce di spesa è stata superiore in termini nominali alla crescita del Pil. Le dimensioni della crescita non sono omogenee nelle diverse aree geografiche e nei diversi settori in esame. La stessa incidenza della spesa sociale sul complesso della spesa pubblica é cresciuta in termini percentuali, nel periodo 1996-2003, dal 21,9 a quasi il 25% del totale.

I maggiori incrementi della spesa sociale hanno riguardato il Nord-Ovest, circa 1.300 euro; i più bassi le regioni del Sud con 685 euro. Per quanto riguarda l'istruzione sono Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta le Regioni che hanno registrato gli incrementi maggiori di spesa pro-capite, mentre per la sanità il primato spetta alla Lombardia, con un incremento di spesa quasi doppio rispetto al sistema delle Regioni. Per quanto riguarda l'assistenza l'incremento maggiore di spesa è stato del Lazio, mentre Sardegna e Abruzzo hanno registrato un decremento della spesa pro-capite anche in termini nominali. Il Rapporto Istat ha trovato una forte correlazione tra la spesa sociale media pro-capite e il Pil pro-capite: la spesa più alta è stata registrata nelle Regioni del nord e quella più bassa nel Mezzogiorno.

Sanità

Nessuna novità sul fenomeno della mobilità ospedaliera, soprattutto dalle regioni meridionali verso quelle del Nord. E nella maggior parte dei casi, alla base della scelta di “migrare” per farsi curare vi è la mancanza di centri adeguati nella propria regione, specie nel settore dei trapianti. Tra il 1999 e i 2003, sottolinea infatti l'Istat, la mobilità ospedaliera interregionale non diminuisce: la percentuale di dimissione di residenti ricoverati in un'altra regione passa dal 6,7% al 7,1%. Così, nel 2003 quasi 600.000 ricoveri, il 7% del totale di quelli ordinari per acuti, sono avvenuti in una regione diversa da quella di residenza del paziente. La mobilità può essere analizzata secondo due componenti: una fisiologica, dovuta alla prossimità di strutture ospedaliere in una regione limitrofa o per la temporanea presenza in un luogo diverso da quello di residenza (per lavoro, turismo ecc.) e una motivata da fattori sanitari. E quest'ultima, si legge nel Rapporto, può essere espressione sia di un'offerta non adeguata di strutture, sia di un'insoddisfazione del cittadino verso la qualità dei servizi erogati dalla specifica regione, sia infine dalla necessità di rivolgersi a centri specializzati per determinate patologie. Le regioni che hanno flussi in uscita più consistenti di quelli in entrata sono quelle del Mezzogiorno (a eccezione di Abruzzo e Molise) e fra queste, le regioni con una percentuale d'emigrazione superiore alla media sono Campania, Basilicata e Calabria. La maggior parte delle regioni del nord e del centro, invece, hanno al contrario flussi di entrata più consistenti di quelli in uscita.

Università

La riforma dell'università ha puntato troppo sull'attività didattica che non sempre corrisponde alla richiesta del mercato del lavoro. E' fondamentale puntare sulla ricerca, motore dello sviluppo delle conoscenze e dell'economia. In generale, aumentano gli iscritti nell'anno accademico 2004/2005, che sono 1,8 milioni contro i 1,7 del 1999/2000 (+8,7%) e le immatricolati (quasi 332 mila con un +20,4% rispetto al 1999/2000). Aumentano anche gli studenti in corso, anche se gli abbandoni continuano a rappresentare un problema: circa uno studente su cinque non si iscrive al secondo anno. I corsi attivi aumentano (+55%) ma nello stesso periodo il numero dei docenti cresce del 12%, con una riduzione del numero medio di docenti per corso (dal 24 a 17) e un corrispondente calo del rapporto tra studenti e docenti (da 32,3 a 31,2). Tra le notizie positive, l'aumento dei laureati, passati da 152 mila del 1999 a quasi 269 mila del 2004 (+92 mila nei nuovi corsi triennali, +4 mila circa nei nuovi corsi biennali).

 
 

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